The Animal Kingdom è il film di Thomas Cailley che mostra un mondo in cui gli uomini si trasformano in animali e ritrovano loro stessi
Un padre e un figlio in macchina, imbottigliati nel traffico. Si chiamano François (Romain Duris) e Émile (Paul Kircher). Ai clacson delle macchine si aggiunge il suono di patatine sgranocchiate rumorosamente dal ragazzo. Uno snack diviso con il cane di famiglia. L’uomo si accende una sigaretta con stizza. C’è una discussione. Una delle classiche che potrebbero esserci fra un genitore e un figlio adolescente. Degenera rapidamente e il ragazzo scende dalla macchina, seguito dal cane e inseguito dal padre fra le altre macchine in coda.

L’alterco continua in strada, ma dei colpi lo interrompono. Sono provenienti da un’ambulanza vicina. Il portellone si apre bruscamente; il paziente si dimena e scaglia i soccorritori lontano. Prima di fuggire in un sottopasso questi scambia uno sguardo a François e Émile. Nel trambusto i due si sono riparati dietro un’auto assieme al cane, Albert. Chi ricambia il loro sguardo ha un volto, ma allo stesso tempo non lo ha. I lineamenti sono coperti da una maschera medica a imitazione del becco di un uccello. Al posto delle braccia al fuggitivo spuntavano delle piume di ali primordiali.

Con questa scena si apre The Animal Kingdom (Le règne animal) di Thomas Cailley, nelle nostre sale a partire dal 13 giugno. È stato presentato prima in concorso per Un Certain Regard al 76° Festival di Cannes, poi in anteprima italiana al 41° Torino Film Festivalcome Fuori Concorso. Più nello specifico nella sezione Crazies, segmento competitivo legato al cinema horror e fantastico. Il film si è, inoltre, aggiudicato cinque Premi César fra cui Migliore Colonna sonora originale a cura del torinese Andrea Laszlo de Simone.
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All’inizio, in quei pochi minuti iniziali viene condensato tutto lo spirito e il messaggio del film. Un prodotto ibrido in quello spazio che esiste fra il cinema “d’autore” e quello considerato mainstream – se si volesse proprio fare una distinzione. Un film ibrido come sono ibride le “creature” nel film, ossia uomini e donne colpiti da una misteriosa mutazione. Essa sta colpendo l’umanità in un futuro prossimo. Gradualmente trasforma chi ne viene affetto in un animale, senza alcun tipo di criterio. Costante e inesorabile nonostante si tenti di comprenderne le cause, di curarla se possibile. O al massimo rallentarla.
Come con la moglie di François e madre di Émile. Se il primo è convinto di un possibile ritorno alla normalità, per il figlio le cose sono diverse. Il ragazzo rifiuta regolarmente di visitare o parlare con lei. Egli è convinto che non lo possa più capire in quanto il morbo intacca non solo il corpo ma anche l’intelletto. Questo era il succo di quella discussione in macchina. François era riuscito, finalmente, a convincere Émile. Ma il ragazzo un po’ per dispetto, un po’ per indole ha cercato di mandare a monte la visita.

Questo non significa che il legame fra il ragazzo e sua madre sia assente. Quando padre e figlio finalmente giungono nella stanza della donna quest’ultimo passa le dita sulle pareti coperte da graffi di artigli. Lei è ora calma, seduta sul letto dando le spalle a Émile. Sono distanti, ai lati opposti. François le si avvicina e invita la donna a girarsi verso suo figlio. La madre e il suo cucciolo si scambiano uno sguardo.
Vediamo il particolare degli occhi della donna contornati da una fitta peluria rossiccia. Quello sguardo mutato, ma ancora profondamente umano sottolinea il rapporto fra madre e figlio. Allo stesso tempo stabilisce una silenziosa consapevolezza fra i due. Loro sanno e sono coscienti. In questo momento sono vicini nonostante nessuno faccia alcunché per esserlo fisicamente. Loro vedono molto di più di quanto veda François, che è a un passo da lei. E si illude. Émile e la donna sanno che niente sarà mai come prima, non solo fra di loro. Ma anche tutto il resto del mondo il quale, nonostante questa pandemia sia in corso da anni, non ha ancora fatto nulla per accettare la nuova condizione.
Ci riporta a mondo extradiegetico in ginocchio che noi ricordiamo ancora e con il quale non siamo riusciti ancora a entrare a patti. Cailley ha dichiarato che l’idea del film è nata prima del COVID-19 ma, buona parte della sceneggiatura, è stata scritta in pieno lockdown. The Animal Kingdom parla di mutazione, non solo in senso letterale, ma anche della società. Noi non accettiamo il vissuto, anzi tendiamo a chiuderlo il più lontano possibile. Scompare dagli occhi e, di conseguenza, anche dalla memoria. Così come è stato con il virus nella realtà, così le creature nel film.

Per François e Émile c’è un trasferimento, l’ingresso del ragazzo in una nuova scuola, e l’inizio di una trasformazione. Il passaggio dall’adolescenza all’età adulta che diventa una scoperta del suo vero io. Una crescita che passa anche per il corpo di Émile che cambia. E anche le sue emozioni cambiano: è un lupo solitario, ma a una sua compagna di classe Nina (Billie Blain) non importa. Anche lei è considerata una reietta. I loro coetanei sono più preoccupati nei preparativi dell’imminente festa di San Giovanni, che viene legata al solstizio d’estate, all’apice del risveglio della Natura. E parlano di come poter abbattere le creature con spade medievali da rievocazione.
Queste ultime vengono infatti trasferite, assieme alla madre di Émile, in un centro specializzato. Un bunker di cemento nella più profonda provincia. Il posto perfetto per chiudere qualcosa che ha perso persino il diritto all’identità. Un riconoscimento che, nella società raccontata da Cailley, viene negato dalla mutazione stessa. Essa giustifica l’incomprensione, la paura e la caccia. Le creature sono senza personalità. Perciò, secondo questa logica, ogni azione contro di loro è legittimata, dentro e (purtroppo) fuori dallo schermo.
