La sociedad de la nieve, di Juan Antonio Bayona, il film sulla lotta per la sopravvivenza nella ricostruzione della Tragedia delle Ande chiude Fuori Concorso Venezia80
Bianco, bianco ovunque che si dipana per chilometri e chilometri. Neve compatta e speroni di roccia ovunque si posi lo sguardo. Un silenzio assordante rotto dai fischi del vento o dal colpo secco di un blocco di ghiaccio che si rompe, il rombo di una valanga in arrivo. La montagna nella sua forma più impervia e pericolosa. Un ambiente completamente neutro in cui è facile perdersi per non trovarsi più.
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Con questo bianco, in questo silenzio rotto dallo scorrere di un piccolo ruscello si apre La sociedad de la nieve il film di Juan Antonio Bayona che è stato scelto come Film di Chiusura Fuori Concorso della 80 Mostra Internazionale di Arte Cinematografica di Venezia. In esso viene raccontata la lotta di un gruppo di giovani uomini perché quel silenzio in quel deserto bianco, possa essere rotto. Per non dimenticare chi ha rischiato la vita ed è sopravvissuto per il rotto della cuffia. Coloro che non sono impazziti di fronte a questa accecante realtà.

Il film, prodotto da Netflixe di prossima uscita sulla piattaforma, è una storia di sopravvivenza, una condizione che passa anche attraverso la più estrema delle soluzioni. È la storia di un gruppo di giovani uruguayani che, nel 1972 dovevano andare da Montevideo a Santiago del Cile. Per molti di loro è stato il primo e anche l’ultimo viaggio importante da soli fuori casa. Per raggiungere la capitale del Cile bisogna passare per le Ande, che circondano il Paese come una cinta muraria impenetrabile.
Le condizioni meteo non sono delle migliori. Infatti sulla catena avvengono numerosi incidenti aerei a causa delle correnti provenienti dall’Oceano Pacifico e l’aria fredda della montagna provoca turbolenze che non lasciano scampo. Tranne, in apparenza, in un avvallamento all’altezza di Curicó, la via più veloce per raggiungere Santiago. Ed è lì che passa l’aereo, una lunga discesa più praticabile. È lì che il volo incontrerà la sua fine quando scompare in un banco di nuvole che impediscono la vista. Le turbolenze non permettono all’aereo di mantenersi stabile in quota, avvicinandolo pericolosamente alle pareti di roccia circostanti. Fino a che non ne colpisce una frontalmente, scatenando il dramma.

L’aereo si spezza a metà, la coda sbalza in avanti. Il resto della fusoliera scivola per chilometri lungo il fianco della montagna prima di fermare la sua letale corsa. Nel frattempo il freddo, l’impatto e la compressione porta via persone, spezza le ossa, rompe le teste. Le urla sono coperte da sinistri rumori che fanno presagire il peggio. Questo è stato il preludio dell’evento conosciuto come “La Tragedia delle Ande“. Ovvero l’incidente occorso a un Fokker F27 della Fuerza Aérea dell’Uruguay che si è schiantato nel comune argentino di Malargue il 13 ottobre del 1972, causando la morte di 29 persone.
Sopravvissero solo in 16 tutti facenti parte di una squadra di rugby universitaria, la Old Christians Club. Quello che è successo nel mezzo è una delle storie di sopravvivenza più incredibili e macabre. I ragazzi sono sopravvissuti per oltre due mesi in condizioni critiche di freddo, isolamento e fame: quest’ultima ha portato alle estreme conseguenze per garantire la vita. Ossia il cibarsi della carne dei propri compagni deceduti.

Una scelta non semplice in quanto il legame umano e una profonda convinzione religiosa da parte dei sopravvissuti ha condizionato molto la loro scelta.Una scelta apparentemente inumana e selvaggia ma necessaria in questo caso. Il sacrificio del singolo per la vita dei molti. Un concetto eucaristico, che il film non manca di sottolineare. Prima del viaggio i ragazzi sono tutti in chiesa e il prete sta recitando il Vangelo di Matteo e Luca (versetti 4,4): la risposta di Gesù nel deserto alla tentazione di trasformare le pietre in pane per saziare la sua fame dovuta ai 40 giorni e 40 notti di digiuno. «L’uomo non può vivere di solo pane». Parole profetiche per quello che sarebbe avvenuto dopo. Da un deserto di sabbia si sostituisce uno di ghiaccio.
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La tentazione viene sorpassata con il consenso, come se fosse un espianto d’organi. La fede lascia posto alla più innata delle attitudini umane, ossia il sapersi arrangiare nelle situazioni più disparate, saper affrontare le difficoltà in ogni caso. Questi giovani uomini, senza dimenticare la loro natura civile, regrediscono e fanno capire quanto la difficoltà e la voglia di vivere possano realmente fare la differenza in ambienti estremi. Una valle montagnosa immensa e silenziosa in cui al cielo terso si sostituisce di notte un incantevole manto stellato. Un ambiente che sa essere meraviglioso e terribile contemporaneamente.

Dove tutto si può perdere: anche un aereo, apparentemente di grosse dimensioni, scompare. E le persone che ne escono fuori sono ancora più piccole. Il film di Bayona lo sottolinea con grandi carrellate e campi lunghi dove la fusoliera si confonde con il bianco e il nero delle rocce. Le difficoltose spedizioni di esplorazione dei superstiti rendono ancora più evidente l’immensità della Natura che li circonda, dalla quale non hanno potenzialmente scampo. Soli in mezzo al nulla si aggrappano ad ogni appiglio perché non scompaiano anche loro, come i loro compagni deceduti, come il resto dell’aereo, in un manto nevoso che non è per nulla rassicurante, anzi letale come una valanga o una tempesta che ha seppellito i giovani dentro l’aereo per diversi giorni. Loro è la lotta di far emergere questo aereo: con pezzi di lamiera usati come vanga, se non proprio a mani nude.
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Una Natura inospitale e crudele come solo lei stessa sa esserla contro chi non la conosce e la sopravvaluta: la tragedia che ne consegue è occasione per il singolo di rimediare e ritrovarsi. Bayona non è nuovo a questo tipo di racconto. Infatti nel 2013 con The Impossible racconta le vicissitudini di una famiglia americana rimasta coinvolta nel disastroso tsunami che ha coinvolto la Thailandia il 26 dicembre 2004.
Una visione apocalittica che noi abbiamo visto solo attraverso le sconvolgenti immagini sui telegiornali di tutto il mondo. Il dramma naturale è una costante nel cinema di Bayona, anche in un titolo apparentemente più blockbuster come Jurassic World – Il regno distrutto (Jurassic World – The Fallen Kingdom, 2018): in quel caso l’imminente esplosione del vulcano della celebre Isla Nublar rischia di provocare una seconda estinzione dei dinosauri. Tre film, quattro elementi su quattro che danno l’innesco alla vicenda: con The Impossible l’acqua, Il regno distrutto il fuoco e La sociedad de la nieve l’aria e la terra.
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Bayona, che ha esordito con l’horror The Orphanage (El Orfanato, 2007) prodotto da Guillermo del Toro, narra questa vicenda drammatica (la prima dopo anni in lingua spagnola) senza discostarsi da canone da blockbuster. Dalla spettacolarità al pathos del migliore cinema hollywoodiano.
La Tragedia delle Ande aveva già ispirato il cinema altre due volte: I sopravvissuti delle Ande (1976) di René Cardona Jr. e Alive – Sopravvissuti (1993) di Frank Marshall. Quest’ultimo è la trasposizione del libro di Piers Paul Read Tabù -La vera storia dei sopravvissuti delle Ande. Anche La sociedad de la nieve prende le mosse dal romanzo, con il medesimo titolo, di Pablo Vierci. Un titolo che fa riferimento al fatto che, per poter vivere non è stato solo necessario infrangere un tabù e regredire. Ma che si deve creare un costrutto, una specie di piccola società parallela in cui tutti fanno la loro parte.
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Una evoluzione che viene vista attraverso gli occhi di uno di questi ragazzi: Numa Turcatti, di 24 anni. Attraverso di lui vediamo i timori del viaggio, sentiamo la tensione palpante mentre, dal finestrino dell’aereo vede l’ala che trema colpita dalla turbolenza fatale. Lui ci riporta alla memoria su quella montagna, a domandarci che cosa è successo quando il mondo ci abbandona. Bisogna ritornare al passato e a ritornare al passato all’essenza umana per trovare una risposta.
