Cosa si intende per fast fashion? 80 miliardi di abiti venduti ogni anno ad un prezzo estremamente economico celano un enorme costo sociale e ambientale
Con l’espressione “fast fashion”, cioè ‘moda veloce’, si fa riferimento a quelle aziende di abbigliamento che producono e vendono capi economici e alla moda, proponendone continuamente di nuovi. Realizzare una decina di collezioni all’anno (rispetto alle classiche ‘primavera-estate’ e ‘autunno-inverno’) fa sì che i ritmi di produzione di queste aziende siano sostenibili solo producendo in paesi come l’India, la Cina, la Cambogia o il Bangladesh dove il costo della manodopera è molto basso e spesso i lavoratori (anche bambini) sono sfruttati e costretti a lavorare in condizioni di mancata sicurezza.
Si è parlato a lungo di questo problema dopo il crollo, nel 2013, del Rana Plaza Factory Complex a Dhaka (Bangladesh), un palazzo di nove piani al cui interno si trovavano moltissimi laboratori di manifattura tessile. Si stima che nell’incidente persero la vita 1.133 persone.

Le conseguenze ambientali del fast fashion
Il costo della fast-fashion è enorme non solo a livello umano e sociale, ma anche ambientale. Il settore della moda e del tessile rappresenta infatti la seconda industria più inquinante del mondo, dopo quella del petrolio. Dall’acquisizione delle materie prime, passando per la produzione, il trasporto e lo smaltimento del prodotto, l’impatto ambientale del fast fashion è molto alto.
Secondo il Fashion Danish Institute, un quarto di tutte le sostanze chimiche prodotte nel mondo sono utilizzate nel settore tessile per realizzare il poliestere e le altre fibre sintetiche, che dal 2007 sono diventate le più diffuse (62%) per l’abbigliamento.
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La produzione di queste fibre sintetiche causa l’emissione nell’atmosfera particelle e gas come CO2, ossido di diazoto, idrocarburi, ossidi di zolfo e altri sottoprodotti. Inoltre, gli impianti di produzione spesso rilasciano composti e solventi che inquinano i locali corsi d’acqua.
Non va meglio per il cotone, per coltivare il quale vengono utilizzati più pesticidi che per ogni altra coltura al mondo, mettendo a rischio la salute dei lavoratori e la salubrità di acque e terreni.
Ma non è finita qui: nomi complicati quali ftalati e formaldeide nascondono una subdola minaccia per la nostra salute. Secondo uno studio realizzato dalla UE, ben il 7-8% delle patologie dermatologiche sarebbe dovuto a ciò che indossiamo.
Uno stile di consumo differente è possibile
80 miliardi di capi di ‘moda veloce’ sono prodotti ogni anno. Secondo stime recenti elaborate dal Waste & Resource Action Program, il 30% degli abiti acquistati langue appeso negli armadi, mai indossato. Una percentuale equivalente finisce ogni anno in discarica dopo essere stato utilizzato, in media, meno di cinque volte, ma spesso anche dopo un solo uso. In totale 14 milioni di tonnellate di abiti e tessuti usati sono gettati via ogni anno nel mondo, di cui solo il 16% viene riciclato (fonte: EPA – Environmental Protection Agency).
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Come consumatori, cosa possiamo fare per contrastare le conseguenze deleterie della fast fashion? È possibile cambiare l’industria della moda semplicemente modificando il modo in cui consideriamo i nostri vestiti. Dobbiamo cioè imparare ad essere scrupolosi, a leggere le etichette, a fare attenzione ai materiali di cui sono fatti i nostri abiti, a ragionare sulla loro provenienza, ad assicurarci che i diritti dei lavoratori siano rispettati. Insomma, dobbiamo rapportarci all’abbigliamento che acquistiamo nello stesso modo in cui abbiamo imparato ad approcciarci al cibo.
Preferire la produzione locale in luogo di quella su vasta scala, ricorrere a tessuti non tossici, incentivare il riutilizzo e imparare a rinunciare al superfluo sono tutte strade percorribili. Ricordando che fast fashion è solo apparentemente sinonimo di vestiti economici, portando con sé invece un costo umano, sociale e ambientale enorme.
