La Buena Vida è un documentario che mostra come il nostro consumo poco consapevole di energia possa avere conseguenze drammatiche su popolazioni lontanissime da noi
Accendere un interruttore in Europa e causare l’allontanamento dalla propria terra di intere comunità di indigeni in Colombia. Un chiaro esempio di “effetto farfalla” che, a partire da azioni percepite come minime, è in grado di provocare conseguenze dal peso smisurato. Complici dichiarati sono i comfort del progresso e della “bella vita”, che rendono accettabili i paradossi più estremi ed eticamente più discutibili.
“Sono tedesco. In Germania i produttori di energia come RWE, EnBw, Eon, Steag e Vattenfall comprano grandi quantità di carbone dalla Colombia per produrre e vendere elettricità” afferma il regista Jens Schanze, cui abbiamo rivolto alcune domande a proposito di La Buena Vida- Das Gute Leben, documentario vincitore, all’interno del Green Film Network, del Grand Prix al Festival FreDD 2016. “È l’elettricità che rende le nostre vite confortevoli. Apprezziamo la luce, il calore, la velocità. Volevo rendere visibile quella profonda connessione fra le nostre vite e le vite della gente di Tamaquito”.
Proprio a Tamaquito, villaggio in mezzo alle foreste della Colombia settentrionale, la natura ha provveduto per secoli a garantire alla comunità Wayúu tutto ciò di cui ha avuto bisogno per vivere. Ma l’abituale stile di vita viene distrutto dalla costruzione di El Cerrejón che, con una fenditura di 700 chilometri quadrati, è la più grande miniera di carbone a cielo aperto del mondo. Determinato a salvare i Wayúu da un esilio forzato, il giovane leader della comunità Jairo Fuentes parte per negoziare con i responsabili dell’industria che, spalleggiati da potenti compagnie del calibro di Glencore, Anglo American e BHP Billiton, promettono un progresso capace di donare una vita migliore.
La Buena Vida | Il viaggio del giovane leader di Tamaquito Jairo Fuentes
“Durante le ricerche, abbiamo visitato 13 villaggi” ci racconta il regista. “Le condizioni psicologiche degli abitanti coinvolti erano scioccanti: erano distrutti, paralizzati da un senso di impotenza a causa del comportamento spesso spietato, persino criminale, delle società minerarie. Subivano le conseguenze dell’attività estrattiva: polvere, rumore, scarsità di acqua e i conseguenti danni agricoli, oltre alla minaccia di vedersi sottrarre le loro case e la loro terra. In più, la gente aveva perso il loro senso di unità”. A Tamaquito la situazione era diversa, nonostante le minacce fossero le stesse. “Non c’era alcun segno di rassegnazione. La comunità sembrava forte e fiduciosa in se stessa, anzi ci ha dato uno straordinario esempio di solidarietà, dignità, pacifismo, spiritualità e identità culturale. Tutte qualità che in larga parte (o forse del tutto) sono andate perdute nel nostro mondo”.
La narrazione è affidata alle azioni, alle assemblee e agli scambi di opinione fra gli stessi protagonisti, con l’unico filtro delle scelte di inquadratura e di montaggio. “Abbiamo iniziato a filmare circa 8 mesi prima che il villaggio fosse trasferito, i negoziati erano nella loro fase cruciale. Abbiamo pensato che la storia si sarebbe rivelata da sé e abbiamo deciso di non fare interviste. Volevamo raccontare la vicenda dal punto di vista degli abitanti ed essi ci hanno offerto di vivere con loro durante le riprese. Il nostro scopo era di dare al pubblico l’opportunità di vivere in prima persona le situazioni che i Wayuu hanno sperimentato nel difficile e drammatico processo di perdita del loro territorio ancestrale. Volevo che il pubblico fosse testimone dell’incredibile ingiustizia della situazione e della strabiliante dignità del loro comportamento. Qualunque riflessione, intervista a scopo esplicativo e persino un narratore avrebbe, secondo il mio punto di vista, interrotto il flusso drammatico della storia.”
Una storia che le immagini riescono a mostrare con forza, immediatezza ed efficacia. “Un film può avere un grande impatto sulla vita di una persona. Ci identifichiamo con il coraggioso e carismatico Jairo, e allo stesso tempo ci rendiamo conto che gli impiegati dell’azienda mineraria rappresentano il nostro stesso modo di vivere e pensare, quello del “mondo sviluppato”. Ed è un dilemma”.
Infatti, come svela il film in un triste resoconto finale, a fronte di una richiesta annuale di carbone nei Paesi ricchi di 2,7 tonnellate, circa 1,5 milioni di persone nel mondo sono costrette a migrare ogni anno. D’altra parte, suggerisce il regista in conclusione, realizzare di essere complici di una grande ingiustizia può avere il potere di cambiare le cose: “La mia speranza è che l’energia di queste forti emozioni spingano il pubblico ad agire nelle loro vite quotidiane. Spero che le persone inizino a mettere in dubbio in senso ampio il loro modello di vita. Magari qualcuno cambierà il suo fornitore di energia, o la sua banca, o semplicemente si sforzerà di consumare meno. Meno di tutto”. E più consapevolmente.